Pinocchio (parte 2) - Carlo Collodi

Pinocchio (parte 2) – Carlo Collodi

La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto 
In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai più morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, battè per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.
 
 A questo segnale si sentì un gran rumore di ali che volavano con foga precipitosa, e un grosso falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.
 
– Che cosa comandate, mia graziosa Fata? – disse il Falco abbassando il becco in atto di reverenza (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli turchini non era altro, in fin dei conti, che una buonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco):
 
– Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande?
 
– Lo vedo.
 
– Orbene: vola subito laggiù: rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria e posalo delicatamente sdraiato sull’erba a piè della Quercia.
 
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò dicendo:
 
– Quel che mi avete comandato, è fatto.
 
– E come l’hai trovato? Vivo o morto?
 
– A vederlo, pareva morto, ma non dev’essere ancora morto perbene, perché, appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: «Ora mi sento meglio!».
 
Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e quale come se fosse un uomo.
 
Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in capo un nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giù per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi gli ossi che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzoni corti di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi dentro la coda, quando il tempo cominciava a piovere.
 
– Su da bravo, Medoro! – disse la Fata al Can-barbone; – Fai subito attaccare la più bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito?
 
Il Can-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partì come un barbero.
 
Di lì a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell’interno di panna montata e di crema coi savoiardi. La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi.
 
Non era ancora passato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò, e la Fata, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a chiamare i medici più famosi del vicinato.
 
E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.
 
– Vorrei sapere da lor signori, – disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio, – vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!…
 
A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
 
– A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
 
– Mi dispiace, – disse la Civetta, – di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!
 
– E lei non dice nulla? – domandò la Fata al Grillo-parlante.
 
– Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo!…
 
Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.
 
– Quel burattino lì, – seguitò a dire il Grillo-parlante, – è una birba matricolata…
 
Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito.
 
– è un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo. Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli.
 
– Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!…
 
A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio.
 
– Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione, – disse solennemente il Corvo.
 
– Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega, – soggiunse la Civetta, – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.
 
Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: Però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per gastigo gli cresce il naso
 
Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.
 
Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
 
– Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.
 
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimanda con voce di piagnisteo:
 
– è dolce o amara?
 
– è amara, ma ti farà bene.
 
– Se è amara, non la voglio.
 
– Dà retta a me: bevila.
 
– A me l’amaro non mi piace.
 
– Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.
 
– Dov’è la pallina di zucchero?
 
– Eccola qui, – disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
 
– Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara…
 
– Me lo prometti?
 
– Sì…
 
La fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri:
 
– Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!… Mi purgherei tutti i giorni.
 
– Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute.
 
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
 
– è troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
 
– Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata?
 
– Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò!…
 
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
 
– Così non la posso bere! – disse il burattino, facendo mille smorfie.
 
– Perché?
 
– Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi.
 
La Fata gli levò il guanciale.
 
– è inutile! Nemmeno così la posso bere…
 
– Che cos’altro ti dà noia?
 
– Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto.
 
La Fata andò e chiuse l’uscio di camera.
 
– Insomma, – gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto, – quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…
 
– Ragazzo mio, te ne pentirai…
 
– Non me n’importa…
 
– La tua malattia è grave…
 
– Non me n’importa…
 
– La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…
 
– Non me n’importa…
 
– Non hai paura della morte?
 
– Punto paura!… Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva.
 
A questo punto, la porta della camera si spalancò ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
 
– Che cosa volete da me? – gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.
 
– Siamo venuti a prenderti, – rispose il coniglio più grosso.
 
– A prendermi?… Ma io non sono ancora morto!…
 
– Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!…
 
– O Fata, o Fata mia,- cominciò allora a strillare il burattino, – datemi subito quel bicchiere. Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire no… non voglio morire…
 
E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato.
 
– Pazienza! – dissero i conigli. – Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo.
 
E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
 
Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
 
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
 
– Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
 
– Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!…
 
– E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
 
– Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.
 
– Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte…
 
– Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, colla bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giù!…
 
– Ora vieni un po’ qui da me e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
 
– Gli andò che il burattinaio Mangiafoco mi dette alcune monete d’oro, e mi disse: «Tò, portale al tuo babbo!» e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: «Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli». E io dissi: «Andiamo»; e loro dissero: «Fermiamoci qui all’osteria del Gambero Rosso e dopo la mezzanotte ripartiremo». Ed io, quando mi svegliai, loro non c’erano più, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: «Metti fuori i quattrini»; e io dissi: «Non ce n’ho»; perché le quattro monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro e, io corri che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco, col dire: «Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua».
 
– E ora le quattro monete dove le hai messe? – gli domandò la Fata.
 
– Le ho perdute! – rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca. Appena detta la bugia, il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.
 
– E dove le hai perdute?
 
– Nel bosco qui vicino.
 
A questa seconda bugia il naso seguitò a crescere.
 
– Se le hai perdute nel bosco vicino, – disse la Fata, – le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.
 
– Ah! ora che mi rammento bene, – replicò il burattino, imbrogliandosi, – le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina.
 
A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ di più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
 
E la Fata lo guardava e rideva.
 
– Perché ridete? – gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.
 
– Rido della bugia che hai detto.
 
– Come mai sapete che ho detto una bugia?
 
– Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.
 
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.
 
Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dè Miracoli
 
Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, battè le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati ~Picchi~, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
 
– Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino, asciugandosi gli occhi, – e quanto bene vi voglio!
 
– Ti voglio bene anch’io, – rispose la Fata, – e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina…
 
– Io resterei volentieri… ma il mio povero babbo?
 
– Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.
 
– Davvero?… – gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. – Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!
 
– Vai pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicurissima che lo incontrerai.
 
Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriolo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?… la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio, coi quali aveva cenato all’osteria del Gambero Rosso.
 
– Ecco il nostro caro Pinocchio! – gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. – Come mai sei qui?
 
– Come mai sei qui? – ripetè il Gatto.
 
– è una storia lunga, – disse il burattino, – e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo nell’osteria, ho trovato gli assassini per la strada…
 
– Gli assassini?… O povero amico! E che cosa volevano?
 
– Mi volevano rubare le monete d’oro.
 
– Infami!… – disse la Volpe.
 
– Infamissimi! – ripetè il Gatto.
 
– Ma io cominciai a scappare, – continuò a dire il burattino, – e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia.
 
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.
 
– Si può sentir di peggio? – disse la Volpe. – In che mondo siamo condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?…
 
Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:
 
– Che cosa hai fatto del tuo zampetto?
 
Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:
 
– Il mio amico è troppo modesto,- e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio, che ha davvero un cuore di Cesare?… Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. E la Volpe nel dir così, si asciugò una lacrima.
 
Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:
 
– Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!…
 
– E ora che cosa fai in questi luoghi? – domandò la Volpe al burattino.
 
– Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.
 
– E le tue monete d’oro?
 
– Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all’osteria del Gambero Rosso.
 
– E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dai retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?
 
– Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.
 
– Un altro giorno sarà tardi, – disse la Volpe.
 
– Perché?
 
– Perché quel campo è stato comprato da un gran signore e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari.
 
– Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli?
 
– Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi?
 
Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finì, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:
 
– Andiamo pure: io vengo con voi.
 
E partirono.
 
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.
 
– E il Campo dei miracoli dov’è? – domandò Pinocchio.
 
– è qui a due passi.
 
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi.
 
– Eccoci giunti, – disse la Volpe al burattino. – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo e mettici dentro le monete d’oro.
 
Pinocchio ubbidì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra.
 
– Ora poi, – disse la Volpe, – vai alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato.
 
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:
 
– C’è altro da fare?
 
– Nient’altro, – rispose la Volpe. – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
 
– Noi non vogliamo regali, – risposero quei due malanni. – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque.
 
Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.
 
Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione
 
Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
 
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:
 
– E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?… E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?… E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!… Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna.
 
Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo… andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.
 
In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.
 
– Perché ridi? – gli domandò Pinocchio con voce di bizza.
 
– Rido, perché nello spollinarmi mi son fatto il solletico sotto le ali.
 
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricuopriva le monete d’oro.
 
Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.
 
– Insomma, – gridò Pinocchio, arrabbiandosi, – si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?
 
– Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.
 
– Parli forse di me?
 
– Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.
 
– Non ti capisco, – disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.
 
– Pazienza! Mi spiegherò meglio, – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!
 
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.
 
Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
 
Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.
 
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.
 
Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima arte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
 
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.
 
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:
 
– Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.
 
Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.
 
E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.
 
– Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io, – disse Pinocchio al carceriere.
 
– Voi no, – rispose il carceriere, – perché voi non siete del bel numero…
 
– Domando scusa, – replicò Pinocchio, – sono un malandrino anch’io.
 
– In questo caso avete mille ragioni, – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.
 
Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola
 
Figuratevi l’allegrezza di Pinocchio, quando si sentì libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscì subito fuori della città e riprese la strada che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.
 
A motivo del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba.
 
Ma il burattino non se ne dava per inteso.
 
Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un cane levriero, e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra sé e sé:
 
– Quante disgrazie mi sono accadute… E me le merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso… e voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte più giudizio di me!… Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente… Tanto ormai ho bell’e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano mai una per il sù verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?… Ce lo troverò a casa della Fata? è tanto tempo, pover’uomo, che non lo vedo più, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatto?… E pensare che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose… e pensare che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei! Ma si può dare un ragazzo più ingrato e più senza cuore di me?…
 
Nel tempo che diceva così, si fermò tutt’a un tratto spaventato e fece quattro passi indietro.
 
Che cosa aveva veduto?…
 
Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino.
 
Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo della strada.
 
Aspettò un’ora; due ore; tre ore; ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare dè suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda.
 
Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente:
 
– Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare?
 
Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.
 
Allora riprese colla solita vocina:
 
– Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo più!… Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada?
 
Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare.
 
– Che sia morto davvero?… – disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra.
 
E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria.
 
Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.
 
Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata prima che si facesse buio. Ma lungo la strada non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscadella. Non l’avesse mai fatto!
 
Appena giunto sotto la vite, ~crac~… sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo.
 
Il povero burattino era rimasto preso da una tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.
 
Pinocchio è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can da guardia a un pollaio
 
Pinocchio, come potete figurarvelo, si dette a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perché lì all’intorno non si vedevano case, e dalla strada non passava anima viva.
 
Intanto si fece notte.
 
Un po’ per lo spasimo della tagliuola, che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto vedendosi passare una Lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:
 
– O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?…
 
– Povero figliuolo! – replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. – Come mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?
 
– Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscadella, e…
 
– Ma l’uva era tua?
 
– No…
 
– E allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?…
 
– Avevo fame…
 
– La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potere appropriarsi la roba che non è nostra…
 
– è vero, è vero! – gridò Pinocchio piangendo, – ma un’altra volta non lo farò più.
 
A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di passi, che si avvicinavano.
 
Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta al trabocchetto della tagliuola.
 
E la sua maraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto il pastrano, s’accorse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo.
 
– Ah, ladracchiolo! – disse il contadino incollerito, – dunque sei tu che mi porti via le galline?
 
– Io no, io no! – gridò Pinocchio, singhiozzando. – Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli d’uva!…
 
– Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo.
 
E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte.
 
Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra: e tenendogli un piede sul collo, gli disse:
 
– Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia.
 
Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro.
 
– Se questa notte, – disse il contadino, – cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare.
 
Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato sull’aia, più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in tanto, cacciandosi rabbiosamente le mani dentro al collare, che gli serrava la gola, diceva piangendo:
 
– Mi sta bene!… Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo… ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la sfortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa d’un contadino. Oh, se potessi rinascere un’altra volta!… Ma oramai è tardi, e ci vuol pazienza! Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò.
 
Pinocchio scuopre i ladri e, in ricompensa di essere stato fedele, vien posto in libertà
 
Ed era già più di due ore che dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente di uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce:
 
– Buona sera, Melampo.
 
– Io non mi chiamo Melampo, – rispose il burattino.
 
– O dunque chi sei?
 
– Io sono Pinocchio.
 
– E che cosa fai costì?
 
– Faccio il cane di guardia.
 
– O Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane, che stava in questo casotto?
 
– è morto questa mattina.
 
– Morto? Povera bestia! Era tanto buono!… Ma giudicandoti alla fisonomia, anche te mi sembri un cane di garbo.
 
– Domando scusa, io non sono un cane!…
 
– O chi sei?
 
– Io sono un burattino.
 
– E fai da cane di guardia?
 
– Purtroppo: per mia punizione!…
 
– Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo: e sarai contento.
 
– E questi patti sarebbero?
 
– Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.
 
– E Melampo faceva proprio così? – domandò Pinocchio.
 
– Faceva così, e fra noi e lui siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bell’e pelata, per la colazione di domani. Ci siamo intesi bene?
 
– Anche troppo bene!… – rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: «Fra poco ci riparleremo!».
 
Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane, e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di legno, che ne chiudeva l’entratina, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza.
 
Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello.
 
E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce ~bu-bu-bu-bu~.
 
A quell’abbaiata, il contadino saltò dal letto e, preso ii fucile e affacciatosi alla finestra, domandò:
 
– Che c’è di nuovo?
 
– Ci sono i ladri! – rispose Pinocchio.
 
– Dove sono?
 
– Nel pollaio.
 
– Ora scendo subito.
 
E infatti, in men che non si dice ~amen~, il contadino scese: entrò di corsa nel pollaio e, dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza:
 
– Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. E’ un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me non badano a queste piccolezze!…
 
Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e, fra le altre cose, gli domandò:
 
– Com’hai fatto a scuoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla…
 
Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva: avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano fra il cane e le faine: ma ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sé: – A che serve accusare i morti?… I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!…
 
– All’arrivo delle faine sull’aia, eri sveglio o dormivi? – continuò a chiedergli il contadino.
 
– Dormivo, – rispose Pinocchio, – ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: «Se prometti di non abbaiare e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata!…». Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta!
 
– Bravo ragazzo! – gridò il contadino, battendogli sur una spalla. – Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a casa.
E gli levò il collare da cane.
 
Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini: poi trova un Colombo che lo porta sulla riva del mare, e lì si getta nell’acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto
 
Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso i campi, e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.
 
Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giù a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo a occhio nudo il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma guarda di qua, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.
 
Allora ebbe una specie di tristo presentimento e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:
 
QUI GIACE
 
LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
 
MORTA DI DOLORE
 
PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO
 
FRATELLINO PINOCCHIO
 
Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco.
 
E piangendo diceva:
 
– O Fatina mia, perché sei morta?… perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?… E il mio babbo, dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! più! più!… O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!… Se davvero mi vuoi bene… se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci… ritorna viva come prima!… Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti? Se arrivano gli assassini. mi attaccheranno daccapo al ramo dell’albero… e allora morirò per sempre. Che vuoi che faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sì, voglio morire!… ih! ih! ih!…
 
E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita.
 
Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza:
 
– Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?
 
– Non lo vedi? piango! – disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.
 
– Dimmi, – soggiunse allora il Colombo – non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?
 
– Pinocchio?… Hai detto Pinocchio? – ripetè il burattino saltando subito in piedi. – Pinocchio sono io!
 
Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più grosso di un tacchino.
 
– Conoscerai dunque anche Geppetto? – domandò al burattino.
 
– Se lo conosco? E’ il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci da lui? Ma è sempre vivo? Rispondimi per carità: è sempre vivo?
 
– L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.
 
– Che cosa faceva?
 
– Si fabbricava da sé una piccola barchetta per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono più di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.
 
– Quanto c’è di qui alla spiaggia? – domandò Pinocchio con ansia affannosa.
 
– Più di mille chilometri.
 
– Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!…
 
– Se vuoi venire, ti ci porto io.
 
– Come?
 
– A cavallo sulla mia groppa. Sei peso di molto?…
 
– Peso? tutt’altro! Son leggiero come una foglia.
 
E lì, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo e messa una gamba di qua e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento: – Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme di arrivar presto!…
 
Il Colombo prese l’aire e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giù a guardare: e fu preso da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir disotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura.
 
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:
 
– Ho una gran sete!
 
– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio.
 
– Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie.
 
Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:
 
– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone!
 
– Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!
 
Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare. Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparì.
 
La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare.
 
– Che cos’è accaduto? – domandò Pinocchio a una vecchina.
 
– Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua…
 
– Dov’è la barchetta?
 
– Eccola laggiù, diritta al mio dito, – disse la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta in quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino.
 
Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:
 
– Gli è il mì babbo! gli è il mì babbo!
 
Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio ritto sulla punta di un alto scoglio non finiva più dal chiamare il suo babbo per nome e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in capo.
 
E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro, ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla terra.
 
Tutt’a un tratto, venne una terribile ondata, e la barca sparì.
 
Aspettarono che la barca tornasse a galla: ma la barca non si vide più tornare.
 
– Pover’omo! – dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornarsene alle loro case.
 
Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e, voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:
 
– Voglio salvare il mio babbo!
 
Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro più.
 
– Povero ragazzo! – dissero alIora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera tornarono alle loro case.
 
Pinocchio arriva all’isola delle Api industriose e ritrova la Fata
 
Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.
 
E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente, e con certi lampi che pareva di giorno.
 
Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.
 
Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.
 
Il colpo fu così forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:
 
– Anche per questa volta l’ho proprio scampata bella!
 
Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio.
 
Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma cosi lontana, che pareva una mosca.
 
– Sapessi almeno come si chiama quest’isola! – andava dicendo. – Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi; ma a chi mai posso domandarlo? A chi, se non c’è nessuno?…
 
Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lì lì per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dell’acqua. Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi sentire:
 
– Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola?
 
– Anche due, – rispose il pesce, il quale era un Delfino così garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.
 
– Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?
 
– Ve ne sono sicuro, – rispose il Delfino. – Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.
 
– E che strada si fa per andarvi?
 
– Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare.
 
– Mi dica un’altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mì babbo?
 
– E chi è il tuo babbo?
 
– Gli è il babbo più buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare.
 
– Colla burrasca che ha fatto questa notte, – rispose il delfino, – la barchettina sarà andata sott’acqua.
 
– E il mio babbo?
 
– A quest’ora l’avrà inghiottito il terribile Pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.
 
– Che è grosso di molto questo Pesce-cane? – domandò Pinocchio, che digià cominciava a tremare dalla paura.
 
– Se gli è grosso!… – replicò il Delfino. – Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia così larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.
 
– Mamma mia! – gridò spaventato il burattino: e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al delfino e gli disse: – Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza.
 
Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo svelto; tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni più piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.
 
Dopo mezz’ora di strada, arrivò a un piccolo paese detto «Il paese delle Api industriose». Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo nemmeno a cercarlo col lumicino.
 
– Ho capito, – disse subito quello svogliato di Pinocchio, – questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! Intanto la fame lo tormentava, perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla; nemmeno una pietanza di veccie.
 
Che fare?
 
Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccone di pane.
 
A chiedere l’elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.
 
In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.
 
Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:
 
– Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame?
 
– Non un soldo solo, – rispose il carbonaio, – ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.
 
– Mi meraviglio! – rispose il burattino quasi offeso, – per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!…
 
– Meglio per te! – rispose il carbonaio. – Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia e bada di non prendere un’indigestione.
 
Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina.
 
– Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito?
 
– Volentieri; vieni con me a portar calcina, – rispose il muratore, – e invece d’un soldo, te ne darò cinque.
 
– Ma la calcina è pesa, – replicò Pinocchio, – e io non voglio durar fatica.
 
– Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, – divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia.
 
In men di mezz’ora passarono altre venti persone, e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero:
 
– Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, và piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d’acqua.
 
– Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua alla vostra brocca? – disse Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete.
 
– Bevi pure, ragazzo mio! – disse la donnina, posando le due brocche in terra.
 
Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:
 
– La sete me la sono levata! Così mi potessi levar la fame!… La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:
 
– Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane.
 
Pinocchio guardò la brocca, e non rispose né sì né no.
 
– E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto, – soggiunse la buona donna.
 
Pinocchio dette un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sì né no.
 
– E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. – Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere e, fatto un animo risoluto, disse:
 
– Pazienza! Vi porterò la brocca fino a casa!
 
La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.
 
Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto.
 
Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.
 
Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice; ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ~ohhh!~… di maraviglia e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore.
 
– Che cos’è mai tutta questa maraviglia? – disse ridendo la buona donna.
 
– Egli è… – rispose balbettando Pinocchio, – egli è… egli è… che voi somigliate… voi mi rammentate… sì, sì, sì, la stessa voce… gli stessi occhi.. gli stessi capelli… sì, sì, sì… anche voi avete i capelli turchini… come lei!… O Fatina mia!… O Fatina mia!… ditemi che siete voi, proprio voi!… Non mi fate più piangere! Se sapeste!… Ho pianto tanto, ho patito tanto..
 
E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettandosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.
 
Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo
 
In sulle prime la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più a lungo la commedia, fini col farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:
 
– Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?
 
– Gli è il gran bene che vi voglio quello che me l’ha detto.
 
– Ti ricordi? Mi lasciasti bambina e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.
 
– L’ho caro dimolto, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!… Ma come avete fatto a crescere cosi presto?
 
– è un segreto.
 
– Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.
 
– Ma tu non puoi crescere, – replicò la Fata.
 
– Perché?
 
– Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.
 
– Oh! sono stufo di far sempre il burattino! – gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. – Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri.
 
– E lo diventerai, se saprai meritartelo…
 
– Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
 
– Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.
 
– O che forse non sono?
 
– Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece…
 
– E io non ubbidisco mai.
 
– I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu…
 
– E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.
 
– I ragazzi perbene dicono sempre la verità…
 
– E io sempre le bugie.
 
– I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola…
 
– E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.
 
– Me lo prometti?
 
– Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene e voglio essere la consolazione del mio babbo… Dove sarà il mio povero babbo a quest’ora?
 
– Non lo so.
 
– Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?
 
– Credo di sì: anzi ne sono sicura.
 
A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:
 
– Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?
 
– Par di no, – rispose sorridendo la Fata.
 
– Se tu sapessi, che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi ~qui giace~…
 
– Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma…
– Oh! che bella cosa! – gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.
 
– Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.
 
– Volentieri, volentieri, volentieri!
 
– Fino da domani, – soggiunse la Fata, – tu comincerai coll’andare a scuola.
 
Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.
 
– Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere…
 
Pinocchio diventò serio.
 
– Che cosa brontoli fra i denti? – domandò la Fata con accento risentito.
 
– Dicevo… – mugolò il burattino a mezza voce, – che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi…
 
– Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.
 
– Ma io non voglio fare né arti né mestieri…
 
– Perché?
 
– Perché a lavorare mi par fatica.
 
– Ragazzo mio, – disse la Fata, – quelli che dicono cosi, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più. Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa disse alla Fata:
 
– Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?
 
– Te l’ho promesso, e ora dipende da te.
 
Pinocchio va cò suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pescecane
 
Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.
 
Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro; chi gli levava il berretto di mano; chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso; e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani per farlo ballare.
 
Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli, che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:
 
– Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.
 
– Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! – urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.
 
Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.
 
– Ohi! che piedi duri! – urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.
 
– E che gomiti!… anche più duri dei piedi! – disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.
 
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un bene dell’anima.
 
E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
 
Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi, c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore.
 
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:
 
– Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.
 
– Non c’è pericolo! – rispondeva il burattino, facendo una spallucciata e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!».
 
Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:
 
– Sai la gran notizia?
 
– No.
 
– Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.
 
– Davvero?… Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?
 
– Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vieni anche tu?
 
– Io, no: voglio andare a scuola.
 
– Che t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.
 
– E il maestro che dirà?
 
– Il maestro si lascia dire. E’ pagato apposta per brontolare tutto il giorno.
 
– E la mia mamma?… – Le mamme non sanno mai nulla, – risposero quei malanni.
 
– Sapete che cosa farò? – disse Pinocchio. –
 
Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni… ma anderò a vederlo dopo la scuola.
 
– Povero giucco! – ribattè uno del branco. –
 
Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.
 
– Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? – domandò il burattino.
 
– Fra un’ora, siamo bell’e andati e tornati.
 
– Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! – gridò Pinocchio.
 
Dato cosi il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio, si messero a correre attraverso ai campi; e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.
 
Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli, ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato in quel momento non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!…
 
Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno dè quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri
 
Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dette subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane.
 
Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.
 
– O il Pesce-cane dov’è? – domandò, voltandosi ai compagni.
 
– Sarà andato a far colazione, – rispose uno di loro, ridendo.
 
– O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino, – soggiunse un altro, ridendo più forte che mai.
 
Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera; e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza:
 
– E ora? Che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?
 
– Il sugo c’è sicuro!… – risposero in coro quei monelli.
 
– E sarebbe?…
 
– Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e cosi diligente alle lezioni? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?
 
– E se io studio, che cosa ve ne importa?
 
– A noi ce ne importa moltissimo perché ci costringi a fare una brutta figura col maestro…
 
– Perché?
 
– Perché gli scolari che studiano fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!…
 
– E allora che cosa devo fare per contentarvi?
 
– Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.
 
– E se io volessi seguitare a studiare?
 
– Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!…
 
– In verità mi fate quasi ridere, – disse il burattino con una scrollatina di capo.
 
– Ehi, Pinocchio! – gridò allora il più grande di quei ragazzi, andandogli sul viso. – Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!… Perché se tu non hai paura di noi, noi non abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo in sette.
 
– Sette come i peccati mortali, – disse Pinocchio con una gran risata.
 
– Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!…
 
– Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa… se no, guai a te!…
 
– Cucù! – fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.
 
– Pinocchio! la finisce male!…
 
– Cucù!
 
– Ne toccherai quanto un somaro!…
 
– Cucù!
 
– Ritornerai a casa col naso rotto!…
 
– Cucù!
 
– Ora il cucù te lo darò io! – gridò il più ardito di quei monelli. – Prendi intanto quest’acconto e serbalo per la cena di stasera.
 
E nel dir così gli appiccicò un pugno sul capo.
 
Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, come c’era da aspettarselo, rispose con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito.
 
Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.
 
Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili, e sciolti i fagotti dè loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i ~Sillabari~, le ~Grammatiche~, i ~Giannettini~, i ~Minuzzoli~, i ~Racconti~ del Thouar, il ~Pulcino~ della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.
 
Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»
 
Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:
 
– Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!…
 
Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:
 
– Chetati, Granchio dell’uggia!… Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Vai piuttosto a letto e cerca di sudare!
 
In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.
 
Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un ~Trattato di Aritmetica~. Vi lascio immaginare se era peso dimolto!
 
Uno di quei monelli agguantò quel volume e, presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni; il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:
 
– O mamma mia, aiutatemi… perché muoio!
 
Poi cadde disteso sulla rena del lido.
 
Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe e in pochi minuti non si videro più.
 
Ma Pinocchio rimase lì, e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:
 
– Eugenio!… povero Eugenio mio!… apri gli occhi, e guardami!… Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!… Apri gli occhi, Eugenio…
 
Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me…
 
O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?… Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?… Dove fuggirò?… Dove andrò a nascondermi?… Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!… Perche ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?… E il maestro me l’aveva detto!… e la mia mamma me lo aveva ripetuto: «Guardati dai cattivi compagni!»-. Ma io sono un testardo… un caparbiaccio… lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio!… E dopo mi tocca a scontarle… E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me?…
 
E Pinocchio continuava a piangere, e berciare, a darsi pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio: quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.
 
Si voltò: erano due carabinieri
 
– Che cosa fai così sdraiato per terra? – domandarono a Pinocchio.
 
– Assisto questo mio compagno di scuola.
 
– Che gli è venuto male?
 
– Par di sì!..
 
– Altro che male! – disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. – Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?
 
– Io no, – balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo.
 
– Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?
 
– Io no, – ripetè Pinocchio.
 
– E con che cosa è stato ferito?
 
– Con questo libro. – E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.
 
– E questo libro di chi è?
 
– Mio.
 
– Basta così: non occorre altro. Rizzati subito e vieni via con noi.
 
– Ma io…
 
– Via con noi!
 
– Ma io sono innocente…
 
– Via con noi!
 
Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:
 
– Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo.
 
Quindi si volsero a Pinocchio, e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:
 
– Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te!
 
Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.
 
Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una decina di passi.
 
– Si contentano, – disse il burattino ai carabinieri, – che vada a riprendere il mio berretto?
 
– Vai pure: ma facciamo una cosa lesta.
 
Il burattino andò, raccattò il berretto… ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.
 
I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio in tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di questo palio feroce.
 
Ma non poté levarsi questa voglia, perché il cane mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non fu più possibile di veder nulla.
 
Pinocchio corre pericolo di essere fritto in padella come un pesce
 
Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credé perduto: perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can-mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.
 
Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.
 
Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina e il mare si vedeva lì a pochi passi.
 
Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma più annaspava e più andava col capo sott’acqua.
 
Quando torno a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando, gridava.
 
– Affogo! Affogo!
 
– Crepa! – gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.
 
– Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!…
 
A quelle grida strazianti, il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane gli disse:
 
– Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?
 
– Te lo prometto! Te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto.
 
Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.
 
Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e, allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:
 
– Addio, Alidoro, fai buon viaggio e tanti saluti a casa.
 
– Addio, Pinocchio, – rispose il cane; – mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu mi hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione, ci riparleremo.
 
Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’ occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo.
 
– In quella grotta, – disse allora fra sé, – ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! Anderò a rasciugarmi e a riscaldarmi, e poi?… E poi sarà quel che sarà.
 
Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perché con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro a una grossa rete in mezzo a un brulichio di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolando si dibattevano come tant’anime disperate.
 
E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto su i piedi di dietro.
 
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:
 
– Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!
 
– Manco male, che io non sono un pesce! – disse Pinocchio dentro di sé, ripigliando un po’ di coraggio.
 
La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia da mozzare il respiro.
 
– Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi!
 
– disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.
 
– Buone queste triglie! – disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.
 
Poi ripetè più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:
 
– Buoni questi naselli!…
 
– Squisiti questi muggini!…
 
– Deliziose queste sogliole!…
 
– Prelibati questi ragnotti!…
 
– Carine queste acciughe col capo!…
 
Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e le acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie.
 
L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.
 
Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito:
 
– Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne mai mangiati!
 
E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì col dire:
 
– Ho già capito: dev’essere un granchio di mare.
 
Allora Pinocchio mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento risentito:
 
– Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io per sua regola sono un burattino.
 
– Un burattino? – replicò il pescatore. – Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio così! Ti mangerò più volentieri.
 
– Mangiarmi? Ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei? – è verissimo, – soggiunse il pescatore, – e siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare, come me, così voglio usarti anch’io i dovuti riguardi.
 
– E questi riguardi sarebbero?…
 
– In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi essere cucinato. Desideri essere fritto in padella, oppure preferisci di essere cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?
 
– A dir la verità, – rispose Pinocchio, – se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di essere lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.
 
– Tu scherzi? Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce cosi raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione.
 
L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi e piangendo diceva: – Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!… Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!… Ih!… Ih!…
 
E perché si divincolava come un anguilla e faceva sforzi incredibili, per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.
 
Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dette a infarinare tutti quei pesci; e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.
 
I primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più né voce né fiato per raccomandarsi.
 
Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi!
 
Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltolò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.
 
Poi lo prese per il capo, e…
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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